Decluttering, che fatica!
Quali sono le motivazioni che rendono così faticoso fare decluttering?
Quando si decide di affrontare un progetto di organizzazione di uno spazio, il primo passo è sempre chiedersi qual è la funzione e l’utilizzo che vogliamo fare di quell’ambiente. In seguito, è possibile definire quali sono gli oggetti che sarà opportuno conservare in questo spazio, e quali lasciar andare.
Nonostante il ragionamento sembri logico, semplice, quali banale, non è mai facile metterlo in pratica: lasciar andare degli oggetti che ci appartengono risulta difficile e faticoso.
Ma perché?
Le motivazioni sono molte e di diversa natura. Alcune sono di tipo più pratico, per esempio, non sapere da dove cominciare, non avere idea di cosa fare concretamente degli oggetti che si decide di lasciar andare, temere di non avere il tempo e le energie per portare a termine il lavoro e ritrovarsi quindi con maggior confusione di quando si è iniziato.
In tutti questi casi, la nostra figura professionale può essere molto preziosa: i P.O. aiutano a gestire lo spazio e il tempo in modo ottimale, suggerendo opzioni sulla destinazione degli oggetti da lasciar andare. I P.O. inoltre sostengono la motivazione e le energie della persona che ha intrapreso un percorso di decluttering.
Anche con il giusto metodo, però, le persone possono fare fatica al pensiero di lasciar andare le loro cose. Premesso che la decisione finale, se conservare o scartare un oggetto, spetta sempre e solo a chi lo possiede, la nostra figura professionale può aiutare questa decisione ponendo le domande giuste.
“Lo utilizzi regolarmente, o almeno saltuariamente?” “Ti piace?” “È della tua taglia?” “Funziona ancora?” “Ne possiedi altri uguali?” “Se non lo avessi già, lo compreresti?” E così via.
A volte queste domande sono sufficienti perché la persona si renda conto di non avere più bisogno di conservare alcune delle sue cose. Altre volte, invece, pur ammettendo che non utilizza più quell’oggetto, o che non è più della sua taglia, o che non è particolarmente bello, non riesce a decidere di lasciarlo andare.
Le motivazioni dell’attaccamento a quell’oggetto sono più profonde. Possono essere di valore percepito, di natura affettiva, di natura identitaria.
Il valore percepito
Le motivazioni legate al valore percepito possono essere di due tipi:
- Esperimenti scientifici dimostrano che tendiamo ad attribuire un valore economico maggiore a un oggetto che possediamo, piuttosto che se appartenesse a qualcun altro. Forse perché ricordiamo quanto lo abbiamo pagato al momento dell’acquisto, quando era nuovo, o forse perché attribuiamo maggior valore agli oggetti familiari. Di fatto, questo fenomeno rende più difficile separarsi dall’oggetto in questione.
- L’altra motivazione è la difficoltà a liberarsi dell’oggetto perché equivarrebbe a buttare i soldi che sono serviti ad acquistarlo. È però una percezione sbagliata: conservare un oggetto che non utilizziamo solo perché sono stati spesi dei soldi, non lo rende un oggetto utile. Il denaro è stato utilizzato solo al momento dell’acquisto, forse si è trattato di un acquisto sbagliato, oppure l’oggetto ci è servito in passato e ora non serve più. In ogni caso, il denaro ormai è stato speso, e conservare l’oggetto che non serve più provoca solo uno spreco di spazio. Perché non pensare di rivendere quell’oggetto? O di donarlo a qualcuno che possa utilizzarlo effettivamente? In questo modo restituiamo all’oggetto il suo valore.
La natura affettiva
Le motivazioni di natura affettiva sono quelle che portano le persone a considerare alcuni oggetti come veicoli di emozioni e portatori di ricordi: “non posso buttare quella poltrona (consumata, ingombrante e un po’ rotta), ci si sedeva sempre il nonno a leggere il giornale!” Oppure “questi sono tutti i biberon che ha usato mia figlia quando era piccola. Com’era carina…non posso buttarli!”
Non c’è nulla di sbagliato nel decidere di conservare un oggetto, e il ruolo della nostra figura professionale è quello di aiutare a prendere consapevolezza del perché si decide di tenere qualcosa. Il ricordo del nonno che ci ha lasciato, o della tenera bambina che si è trasformata in un’adolescente scontrosa, sono dentro di noi, impressi nella nostra memoria. I ricordi non sono negli oggetti e non ci lasceranno anche se decidessimo di liberarci degli oggetti che li evocano.
Possiamo far riparare la poltrona del nonno e conservarla, se in casa abbiamo lo spazio o ci è utile, oppure possiamo decidere di lasciarla andare, magari scattandole prima una bella foto, consapevoli del fatto che non dimenticheremo il nonno e l’affetto che abbiamo per lui.
La natura identitaria
Le motivazioni di natura identitaria sono quelle che ci portano a non voler lasciare andare gli oggetti perché riteniamo che il loro possesso definisca la nostra identità: “possiedo tanti libri, quindi sono una persona colta.” “Possiedo tanti capi di abbigliamento per la palestra, quindi sono una persona sportiva.” “Possiedo tante attrezzature ed elettrodomestici per la cucina, quindi sono una brava cuoca.” Se è vero, e cioè, se possediamo dieci paia di pantaloni da yoga perché ci alleniamo tutti i giorni, benissimo! Non sono però i dieci pantaloni a renderci persone sportive, ma il fatto che pratichiamo attività sportiva tutti i giorni. Succede spesso di confondere i due piani, mettendo in atto una sorta di identificazione in chi vorremmo essere attraverso i nostri oggetti. Ci attacchiamo agli oggetti perché ci danno l’illusione dello status che desideriamo. Vale la pena però farsi una domanda profonda, quasi esistenziale, sugli oggetti dei quali ci circondiamo: “ci rispecchiano?” “Ci supportano nel percorso del diventare chi vogliamo essere?” “O ci servono come scusa per non agire, per accontentarci?”
Fare decluttering è ben di più che buttare qualche cianfrusaglia: è un percorso di scelta e riflessione dentro la casa, ma anche dentro la persona, fin nel profondo.
E per me e i miei colleghi P.O. poter accompagnare, sostenere e magari facilitare questo percorso è un grande onore.
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